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Elezioni europee: Quale destino per il Green Deal?

Che fine farà il Green Deal europeo? E’ la domanda che chi gira intorno al mondo delle istituzioni di Bruxelles (e non solo) ha iniziato a porsi con l’uscita di scena dell’ex vice presidente Frans Timmermans e che oggi torna a riproporsi a urne chiuse e con l’avvio del nuovo ciclo istituzionale.

Se la transizione verde è stata il pilastro centrale dell’attuale legislatura, sostengono in molti, altrettanto non sarà per quella che si appresta a cominciare.

Annunciato con grande enfasi nel 2019 dalla neo-insediata presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il Green Deal è stato lanciato come una rivoluzionaria strategia di crescita per trasformare l’economia europea, rendendo sostenibili per l’ambiente la produzione di energia e lo stile di vita degli europei. Alla base del piano c’è l’obiettivo di arrivare a zero nuove emissioni nette entro il 2050, target che a livello globale ha avuto il merito di fare da apripista tra le grandi potenze per inserire l’abbattimento delle emissioni tra le priorità politiche, non più solo tra le priorità climatiche. Ma che a Bruxelles è costato la progressiva disaffezione nei confronti di quei partiti e quelle persone che della rivoluzione verde hanno fatto una bandiera politica.

Marcia indietro della von der Leyen

Era diventato chiaro con il dietrofront della madrina stessa del Green Deal von der Leyen costretta a ridimensionare la sua agenda verde, stretta tra le proteste degli agricoltori, l’inflazione e gli alti costi dell’energia che hanno reso il Patto verde per l’Europa il bersaglio politico delle destre. Ancora più chiaro è diventato con la batosta elettorale dei par­titi verdi alle elezioni per rinnovare il Parlamento, che alle urne hanno perso una ventina di seggi rispetto alla legislatura che si sta chiudendo, passando da 71 a 52 posti nell’emiciclo. Nonostante il massiccio crollo di consenso, le priorità del gruppo parlamentare rimangono l’attuazione del Green Deal e la tutela della democrazia, imposte a von der Leyen come conditio sine qua non per garantirle l’appoggio per un secondo mandato alla guida della Commissione europea. Se infatti il Partito popo­lare euro­peo di von der Leyen ha vinto la mag­gior parte dei seggi (190), la mag­gio­ranza par­la­men­tare che abbrac­cia i gruppi S&D e libe­rali è risicata rispetto a quella che la appoggiò nel 2019, quindi c’è ancora spazio per i Verdi per negoziare la loro presenza in una maggioranza stabile che guardi anche alle politiche climatiche. 

Rispetto al 2019 – in cui non votarono la ‘fiducia’ a von der Leyen, ma hanno garantito il sostegno ad alcuni dossier legislativi – i Verdi si sono detti però aperti al dialogo per dar vita a una maggioranza senza l’estrema destra, nonché aperti al compromesso sul Green Deal europeo cogliendo la necessità di dare più spazio alla dimensione industriale della transizione. Segno che ormai è chiaro a tutti che le politiche verdi, da sole, non pagano. “Abbiamo presentato la nostra visione su come vediamo la strategia industriale verde europea ed è una specie di offerta che mettiamo sul tavolo su come fare in modo che la nostra industria europea sia parte del Green Deal“, ha sottolineato il co-leader del gruppo, Bas Eickhout, parlando ai giornalisti in settimana.

Green Deal in crisi 

La legislatura si apriva cinque anni fa con l’annuncio del Green Deal e volge al termine in un momento di profonda crisi di legittimità del Patto verde e con l’incertezza su quale ruolo avrà nella prossima. Ma è un fatto, però, che buona parte della legislazione che lo riguarda (circa l’80% secondo l’Europarlamento) è concordata, dunque i prossimi cinque anni serviranno più che altro per attuarne le politiche. Nonostante la crisi energetica scoppiata senza che qualcuno potesse prevederlo, Bruxelles è riuscita a trovare un accordo istituzionale su quasi tutta l’ambiziosa tabella di marcia del ‘Fit for 55’ che spetterà ora al prossimo Esecutivo attuare. Dallo stop alle nuove auto benzina e diesel dal 2035, alla revisione delle direttive energie rinnovabili ed efficienza energetica fino all’ambiziosa revisione del mercato del carbonio interno all’Ue. In tutto erano tredici proposte legislative, di cui otto revisioni di leggi esistenti e cinque nuove proposte. L’unico file della rivoluzione energetica che rimarrà senza un accordo è la revisione della direttiva sulla tassazione “minima” dei prodotti energetici e dell’elettricità, che attualmente è ancora ferma in discussione in sede di Consiglio Ecofin.

A risentire dello smantellamento di pezzi del Green Deal a fine legislatura sono stati invece i dossier più legati alla transizione ambientale e del sistema agroalimentare. Dopo il via libera a file di peso come il regolamento sugli imballaggi, la legislatura lascia in sospeso ad esempio la normativa sulle nuove tecniche genomiche e (molto probabilmente) la divisiva legge sul ripristino della natura diventata simbolo delle politiche verdi, mentre la pressione della proteste degli agricoltori hanno spinto von der Leyen a ritirare del tutto la proposta per dimezzare l’uso dei pesticidi, altra costola agricola del Green Deal e della strategia Farm to Fork. Se buona parte del Green Deal è concordata e ci si avvia alla fase di attuazione, ora il rischio maggiore è che – esaurita o indebolita l’onda verde che tra il 2018 e 2019 spinse migliaia di europei a chiedere ai governi politiche climatiche più stringenti – le istituzioni possano ‘tornare indietro’ su obiettivi già concordati a Bruxelles, primo tra tutti il divieto di immettere sul mercato europeo auto con motore a com­bu­stione pre­vi­sto per il 2035. 

Fonte: Ansa

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